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Emofilia, sostituire il fattore di coagulazione mancante è la chiave per trattare la malattia

Emofilia, sostituire il fattore di coagulazione mancante è la chiave per trattare la malattia

Emofilia, sostituire il fattore di coagulazione mancante è la chiave per trattare la malattia
| lunedì 16 Aprile 2018

Sino agli Anni 60 l’aspettativa di vita media di una persona affetta da emofilia era di soli 30 anni. Ora invece, grazie alla ricerca che ha portato a terapie sempre più innovative, la situazione è radicalmente cambiata e chi ne è affetto può essere curato con successo. Oggi, in occasione della giornata mondiale dedicata alla malattia, ecco il punto della situazione sul presente e futuro del trattamento dell’emofilia.

Che cos’è l’emofilia?
L’emofilia è una patologia genetica ereditaria caratterizzata dall’incapacità di produrre il giusto livello di alcuni fattori di coagulazione. Il risultato che ne consegue è che la persona affetta non riesce a coagulare il sangue e una semplice emorragia può diventare un evento estremamente grave. Ad oggi si conoscono 3 differenti tipologie di emofilia ciascuna collegata ad uno specifico difetto genetico che rende la cellula incapace di produrre il fattore corretto. Le più comuni sono le forme A e B dove mancano i fattori VIII e IX rispettivamente.

Quante persone ne soffrono e come si manifesta?
Ad oggi si calcola che al mondo ne soffrano circa 400 mila persone, circa 4 mila solo in Italia. La gravità della malattia dipende dalla capacità delle cellule di produrre i fattori della coagulazione. Meno ne sintetizzano e peggiori sono i sintomi. Si considera un’emofilia moderata o grave quando la percentuale del fattore nel sangue scende sotto il 5%. Proprio per l’incapacità di coagulare il sangue chi ne soffre può andare incontro ad eventi emorragici gravi. Nel 70-80% dei casi i sanguinamenti avvengono a livello articolare ma a spaventare particolarmente sono quelli che si verificano internamente in seguito a piccoli traumi.

Come ci si cura?
I primi tentativi di cura avvenuti con successo sono datati anni ’60. Inizialmente le terapie consistevano nella trasfusioni di sangue. Poi, grazie all’ingegneria genetica e all’avvento dei primi farmaci ricombinanti si è arrivati ad produrre e iniettare nella persona il solo fattore mancante. L’idea di base è infatti semplice: con la terapia di profilassi -questo il nome tecnico- l’obiettivo è mantenere costante dall’esterno la quantità di fattore coagulante che il corpo non riesce a produrre. Il limite però è rappresentato dal numero di somministrazioni: chi soffre di emofilia è destinato -a seconda della gravità- a iniezioni endovena quasi giornaliere. Fortunatamente negli ultimi anni sono stati però sviluppate alcune formulazioni di fattori coagulanti che possono essere iniettate solo due volte a settimana. Un risultato non indifferente che ha consentito in molti casi un netto miglioramento nella qualità di vita.

Come cambieranno le terapie?
Ma se le nuove formulazioni hanno permesso un miglioramento nella gestione della vita di un paziente con emofilia, il grande salto di qualità probabilmente avverrà per mezzo della terapia genica. L’idea di base è quella di sostituire il gene difettoso -che non fa produrre il fattore in quantità desiderata- con una copia perfettamente funzionante. Le sperimentazioni in corso sono diverse e nel dicembre scorso uno studio inglese pubblicato dal New England Journal of Medicine ha mostrato che è possibile curare con successo l’emofilia A grazie all’utilizzo della terapia genica. Sperimentata in 13 pazienti, a distanza di 19 mesi tutti hanno avuto miglioramenti tali da poter interrompere il trattamento normale per la malattia. Non solo, undici hanno visto i livelli di fattore VIII tornare a livelli fisiologici.

Fonte La Stampa

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