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Intervista a Stefano Bambi: “Definire il cosiddetto specifico infermieristico, nessuno ci è riuscito”

Intervista a Stefano Bambi: “Definire il cosiddetto specifico infermieristico, nessuno ci è riuscito”

Intervista a Stefano Bambi: “Definire il cosiddetto specifico infermieristico, nessuno ci è riuscito”
| giovedì 1 Settembre 2016

Pubblichiamo, su gentile concessione, l’intervista di Claudio Torbinio, Direttore di My Salute.biz, a Stefano Bambi.

 

Stefano Bambi
Stefano Bambi

Stefano Bambi, Infermiere dal 1995, con esperienze professionali svolte in dipartimento di emergenza e terapia intensiva. Professore a contratto nei corsi di infermieristica in area critica presso la laurea triennale in scienze infermieristiche dell’Università di Firenze fino al 2012. Docente di infermieristica clinica in pronto soccorso e terapia intensiva nei master di area critica dell’Università di Firenze. Dottorando di Ricerca in Scienze Cliniche – Scienze Infermieristiche. Relatore in numerosi convegni nazionali infermieristici. Autore e co-autore di numerose pubblicazioni in riviste mediche ed infermieristiche nazionali ed internazionali. Socio ANIARTI dal 1995. Iscritto ad AACN dal 2004.
Coautore degli algoritmi di triage infermieristico di pronto soccorso della regione Toscana.

Ciao Stefano, bel curriculum, complimenti. Ho tralasciato qualcosa?
Ciao Claudio, in realtà non sono abituato a guardarmi troppo indietro…piuttosto tendo a concentrarmi su quello che ancora è da fare. Scrivi semplicemente che sono un infermiere che svolge la sua attività clinica a tempo pieno (in turno) in Terapia Intensiva…e che ama approfondire alcuni aspetti della sua professione…

 

Stefano quali sono per te i problemi più cogenti per gli infermieri: mansione, contratto, specializzazione, sviluppo?
Mi sono diplomato alla scuola regionale per infermieri nel 1995. Due anni dopo ero a Roma per la corsa ad acquisire il DU, perché era stato all’inizio paventato che con il titolo regionale non si sarebbe potuto accedere alla formazione post-base. Poi fortunatamente, e giustamente, non è stato così. Mi son buttato sui perfezionamenti per acquisire maggior competenza clinica in DEA e in TI. E agli inizi degli anni 2000, qualcuno in aula ha detto: “ragazzi, i perfezionamenti non vi servono mica a nulla…ci vuole il master di primo livello…quello è un titolo universitario”. E così via al master, in aula, sperando poi di vedere una ricaduta immediata, ma anche in termine di ruolo e di contratto, che poi in realtà non c’è stata (ancora).
Questo per rispondere alla tua domanda: è cogente che ci si chiarisca bene le idee su quali tipi di infermieri servano nei servizi e nel sistema, si crei quindi una domanda di formazione aderente a precisi obiettivi operativi e il sistema formativo provveda a pianificare programmi e soprattutto contenuti adeguati a creare figure che poi abbiano un reale impiego nella pratica clinica.
A mio avviso l’approccio top-down del sistema formativo, del tipo “creo la figura e la certifico, poi sta al sistema introdurla nel setting e trovare il modo di impiegarla e valorizzarla” è fallimentare, e rischia solo di frustrare chi investe nella propria formazione professionale.

 

L’Infermiere è malato?
l’infermiere non è malato, ma a volte rischia di perdersi…soprattutto nell’identità professionale. Non bisogna dimenticarsi che da sempre, la figura infermieristica ricopre ruoli e attività anche molto differenti a seconda dei contesti in cui opera, in virtù di una funzione di collante dell’offerta sanitaria centrata sul paziente, e che ci vede prendere e/o lasciare alcuni spazi che possono esser al momento liberi o ricoperti da altre figure. Questo non deve esser vissuto, a mio avviso, necessariamente in modo negativo, ma pragmatico, ed anche flessibile ma nel rispetto della propria identità professionale. D’altronde i contesti locali sono molto variabili e la professione infermieristica ha grandi risorse adattive nella capacità di erogare assistenza al paziente. Che va da quella di base a quella avanzata.

Ma spesso il problema di tutto è semantico. E questo talvolta può creare anche difficoltà a definire il cosiddetto specifico infermieristico. A molti convegni ho sentito questo termine. Peccato che nessuno dei relatori l’abbia mai declinato. Ma questo torna con il discorso che ti ho appena fatto.

 

Se è malato, di che “cure” ha bisogno
L’infermiere non ha bisogno di cure, ha bisogno di non cadere nella trappola che spesso, a più livelli, viene tesa, che è quella di mantenerci divisi e in agonismo tra noi. Avere una forte identità professionale, che parta anche dalla riscoperta del valore dell’assistenza di base, che se fatta a regola d’arte, salva vite non di meno di quella avanzata, è un ottimo punto di partenza. Per ritrovare anche unità tra la linea e la dirigenza, che spesso viene percepita così distante da chi opera nei setting assistenziali quotidiani…spesso solo perché manca un buon livello di comunicazione e condivisione reale degli obiettivi e consapevolezza delle risorse (spesso scarse) a disposizione per raggiungerle. Non parliamo poi di indicatori di esito…senza quelli è come guidare un’auto bendati a 200 km/h.

Un rinnovato “sano” senso di corporazione professionale, ci consentirebbe un confronto molto più sereno con le altre componenti professionali in sanità.

 

Unità di progetto e politica: ci arriveremo mai?
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere…Ho sentito recentemente, però, che in USA stanno riscoprendo il valore delle persone che la pensano diversamente nelle aziende, restituendo dignità al contradditorio, come momento di arricchimento su punti di vista differente, laddove fino a poco tempo fa l’unica parola concessa era “yes sir”…

 

Tre cose da fare per essere un ottimo infermiere?
Intanto per dire agli altri come fare ad essere ottimi, bisognerebbe essere eccellenti…e io son ben lontano dall’avere entrambe le qualità. In ogni caso a mio figlio direi di: dotarsi di grande umiltà e mantenerla per tutta la vita, studiare, e dotarsi di “compassion” (laica) nell’approccio al paziente senza mai abbandonarla neanche per un attimo

 

Tre cose da NON fare per essere un ottimo infermiere?
Assumere atteggiamenti di inciviltà e bullismo sul luogo di lavoro (non è autocitazione, ma dato di fatto nella realtà quotidiana), particolarmente coi nuovi assunti e gli studenti; pensare che l’infermieristica moderna sia solo “salvare vite”. E molto, molto di più. Infine, evitare di mettere tutti i titoli di studio in calce alle email. Sto scherzando, Ma a volte mi viene da ridere, perché si leggono cose anche strampalate, e comunque sembrano esercizi di training autogeno, se non proprio di autoindulgenza.

 

Esistono più i poteri sindacali? Chi ci Tutela?
Credo che i sindacati di categoria potrebbero crescere tanto se si ripartisse dai presupposti che ti ho accennato nella risposta alla tua domanda se l’infermiere è malato.

 

Infermiere contemporaneo: ci dai il tuo Identikit?
l’infermiere 2.0 (forse già 3.0) ha un grosso problema: venire a patti con il precariato. È intelligente, versatile nell’utilizzo e nello sviluppo di tecnologie e utili all’impiego di conoscenze e interventi per l’assistenza infermieristica. E’ capace di individuare i propri mentori all’interno dei gruppi, e deve trovare il modo di rinnovare la propria motivazione professionale in contesti davvero eccessivamente mutabili talvolta.

Non deve scambiare la resilienza per passiva accettazione di ineluttabili destini…E deve uscire anche da alcune convinzioni che qualche cattivo maestro ha instillato nel corso degli anni durante le trasformazioni del nostro sistema formativo. L’assistenza infermieristica è prima di tutto assistenza di base, che ha grande dignità e capacità di produrre esiti per il paziente, quando svolta secondo i dettami delle migliori conoscenze scientifiche. Per delegarla, l’infermiere deve prima padroneggiarla molto bene, altrimenti come può supervisionare altre figure che la svolgono in sua vece? “Back to the basics”, non è un mantra retrogrado. E’ la consapevolezza che le competenze specialistiche necessitano di poggiare sui cosiddetti “fondamentali”. Ed è per questo che un “dottorando di ricerca in scienze infermieristiche”, può aver appena effettuato la deconnessione dal ventilatore automatico di un paziente con cannula tracheostomica, dopo averlo opportunamente valutato con l’equipe multidisciplinare, e iniziare ad imboccarlo con pasto semiliquido avendo cura di prevenire l’eventuale insorgenza di complicanze come la microinalazione, e terminare con l’igiene del cavo orale, mantenendo un costante livello comunicativo con la persona, volta alla condivisione del piano di cure e assistenza e alla riduzione dell’ansia.

Secondo me, uno dei falsi miti da sfatare per quanto riguarda la carriera professionale è quello legato all’equazione “acquisizione di titoli” = “distacco dall’attività clinica”. Oggi più che mai c’è bisogno di essere non guidati, direi, ma ispirati…

Fonte: My Salute.biz

 

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