Salta al contenuto
Prima ed ultima volta?

Prima ed ultima volta?

Prima ed ultima volta?
| lunedì 24 Ottobre 2016

Dopo la notizia del documento consegnato a una ragazza che ha effettuato l’interruzione volontaria di gravidanza nell’ospedale Fallacara – Di Venere in provincia di Bari, tante le riflessioni sul caso.

Di seguito pubblichiamo un articolo del dr. Pio Lattarulo, Infermiere, Docente di Etica e Bioetica.

“Gentile Signora su sua richiesta è stata sottoposta a IVG. Le auguriamo che l’intervento cui è stata sottoposta in data odierna rimanga unico. L’ivg ha delle implicazioni di ordine morale, sociale e psicologico e non solo una mera procedura chirurgica o farmacologica ma un rischio per la stabilità emotiva della donna con possibili ripercussioni sul piano relazionale. Perciò si dovrà adottare un valido metodo contraccettivo affinché la vita affettiva e sessuale possa svolgersi serenamente”.

Questa nota di accompagnamento alla documentazione relativa alla pratica dell’IVG, consegnata in un Presidio Ospedaliero di un’ASL Pugliese, desta relativo scalpore. Singolare appare soltanto la formalizzazione di un pensiero, che è invece molto presente nelle corde di tanti professionisti sanitari: parliamo della ferma convinzione del fatto che, l’abilitazione all’esercizio di una professione sanitaria, contenga in nuce anche quella al giudizio, e particolarmente al victim blaming (1). Forti della conoscenza, del presunto sapere, finanche di ipotetiche capacità di pre-veggenza, ci si sente liberi di puntare il dito. Naturalmente, tralasciando la posizione delle altre dita della mano, che sarebbero saldamentte puntate verso il proprio volto. Ma questo, nell’economia del discorso, appare un particolare insignificante.

Non stupisce perché, al contrario della realtà quotidiana, nel linguaggio dell’etica e quasi soltanto per gli addetti ai lavori, un tale esempio di paternalismo medico viene facilmente respinto, ritenuto archetipico di una stagione passata, l’epoca del paternalismo. Invece, nella linea clinica, si continua ad operare secondo il modello biomedico, non inteso come l’espressione valoriale di un sapere disciplinare ma, come l’etica medica che ha quale ideale quello che Spinsanti descrisse come il paternalismo benevolo. “Questo modello presuppone un ruolo del medico fondamentalmente paternalista. “Paternalismo” in questo contesto non equivale a un giudizio di valore: vuol essere solo la descrizione di una modalità di rapporto. Vuol dire che tra chi cura e colui che riceve la cura c’è lo stesso rapporto asimmetrico che esiste tra un buon padre e una buona madre e dei figli del cui bene sono responsabili. Il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il suo impegno e la sua dedizione” (2)

E’ ben chiaro che la pratica dell’IVG, al pari di molte situazioni della vita, presenta delle implicazioni morali. Il punto della questione sta nell’intenzione, manifestata dalla struttura sanitaria nel prescrivere un comportamento. Appare evidente che l’IVG è un intervento con delle chiare implicazioni psicologiche, un po’ forzato azzardare che possa comportare delle implicazioni relazionali. Quanto al sociale, si vuol tralasciare perché ci si avvierebbe al galoppo su praterie poi difficili da percorrere in fondo, mentre per ciò che attiene l’ambito morale, dovrebbe essere ormai chiaro, al tempo, che la riflessione sul gesto è personale e non può essere imposta per decreto. Una nota di siffatta natura conferma, ove necessario, il forte stato di regressione culturale in cui versa il nostro Paese. La Legge 194 nasce in un momento di forti tensioni sociali, ed è frutto di un Referendum (vale la pena rammentarlo) a cui, per la legge dei grandi numeri, aderirono positivamente anche moltissimi uomini e donne di pensiero cattolico. Le minoranze proponenti mai avrebbero raggiunto, con il solo numero degli aderenti, un intento che rappresentò un punto di rivoluzione nell’evoluzione societaria.

Peraltro, la nota di cui si discute, si pone in forte antinomia con gli intenti della struttura. Chi vi lavora, in controtendenza con la triste ed irrazionale (se paragonata agli obiettivi del SSN) percentuale bulgara degli obiettori, dovrebbe aver chiaro in mente che l’apposizione di uno stigma o la reprimenda con matita bicolore, non è parte del know-how di un professionista. E’ questa la ragione per cui si dovrebbe incentivare a piè sospinto il percorso di competenza, sia di base che avanzato, teso ad acquisire le non technical skill. E’ sempre per questa ragione che, una nota del genere, andava posta all’attenzione del Comitato Etico Aziendale. Assegnare un ruolo reale, vero, vissuto ai Comitati Etici nella nostra Nazione equivale a tessere la tela di Penelope.

Lo spirito dello scritto che si commenta in questa sede purtroppo contrassegna l’operato con un linguaggio violento che certamente infligge ferite. Scrive non a torto Michela Marzano, “E’ giusto discutere con una donna che si appresta a praticare IVG per capire con lei se sia possibile percorrere un’altra strada. E’ doveroso informare ogni donna dell’esistenza di validi metodi contraccettivi. E’ anche comprensibile che, dopo un aborto, il personale medico si mostri disponibile e pronto ad ascoltare una donna e ad accoglierla successivamente se lei lo desidera. Ma consegnarle una pagina dattiloscritta in cui ci si augura che l’intervento cui è stata sottoposta la donna “rimanga unico” significa veramente tornare indietro di quasi un secolo e umiliare la donna, per utilizzare di nuovo le parole di Simone de Beauvoir. Ricordandole che, nonostante tutto, “è lei che incarna sotto forma concreta e immediata, in sé, la colpa dell’uomo” (3).

Piuttosto che dar luogo a pensieri, partendo da fortini ideologici e confuse idee su senso e significato della morale, sarebbe opportuno che, esponenti politici, delle parti sociali e delle professioni sanitarie, contribuissero ancor più concretamente nell’orientamento delle donne ad una contraccezione “oculata” o se, proprio necessario, all’utilizzo di tecniche abortive meno invasive, dimostrando di aver compreso come venire incontro alla complessità indotta dall’evoluzione di un mondo che cambia, piuttosto che affrontare un simile discorso in modalità ex-cathedra (4).
Autore Pio Lattarulo

© Riproduzione Riservata

 

Bibliografia
1 La colpevolizzazione della vittima consiste nel ritenere la vittima di un crimine o di altre sventure parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto e spesso nell’indurre la vittima stessa ad autocolpevolizzarsi. Un atteggiamento di “colpevolizzazione” è anche connesso con l’ipotesi che si deve conoscere e accettare una supposta “natura umana” (che sarebbe maligna in questa visione, o tendente all’abuso, alla sopraffazione), e – conseguentemente – adeguarcisi anche a scapito dei propri desideri, opinioni e della propria libertà. https://it.wikipedia.org/wiki/Colpevolizzazione_della_vittima visita del 23.10.2016 alle ore 18.04.

2 Spinsanti S. Bioetica e nursing. Milano : Mc-Graw-Hill, 2001, pagg.112.

3 Marzano M. Quel diktat burocratico che umilia le donne. La Repubblica, 23.10.2016.

4 Lattarulo P. Amleto, il nursing ed il counselling. Io Infermiere, 2011; 1: 17-21.

Ordine Professioni Infermieristiche
Via Giovanna Zaccherini Alvisi, 15/B
BOLOGNA (40138)
C.F. 80152320372

Telefono: 051/393840
Fax: 051/344267

Come arrivare

Leggi la Privacy Policy e contattaci all’indirizzo Mail: rpd@fclex.it
Telefono: 051.235733