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Hiv, come invecchiare «in compagnia» del virus

Hiv, come invecchiare «in compagnia» del virus

Hiv, come invecchiare «in compagnia» del virus
| venerdì 10 Marzo 2017

Un’epidemia invisibile e silenziosa che, pur avendo rallentato la sua corsa, non si arresta. Parliamo dell’Aids che in Italia dal 1982 ha causato 43mila decessi e rimane un grande problema di salute pubblica nei 31 paesi Ue e dell’Europa economica allargata, dove ogni anno si registrano 30mila nuove infezioni da Hiv.

 La buona notizia è che in Europa circa 9 pazienti Hiv positivi su 10 sono virologicamente soppressi. Oltre alla soppressione virologica, un altro traguardo importante è quello del prolungamento della sopravvivenza e quindi la possibilità per queste persone di vivere una vita sempre più “normale”, convivendo con il virus. Sulla “long life” delle persone con HIV si concentrano le sfide della comunità scientifica e delle associazioni. E quello dell’invecchiamento è stato anche il tema al centro della conferenza annuale CROI (Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections) di Seattle e del convegno svoltosi di recente a Roma dedicato agli “esiti riportati dai pazienti” o PROs (Patient Reported Outcomes).

Vivere di più, gestire le comorbidità

Vivere più a lungo significa dover affrontare anche altre malattie non strettamente collegate con l’infezione, come quelle dovute all’invecchiamento, allo stile di vita e all’esposizione cronica alle terapie antiretrovirali.

«Queste comorbidità nei sieropositivi si manifestano prima rispetto al corrispondente sieronegativo di pari età» ha sottolineato Massimo Andeoni, Direttore U.O.C. Malattie Infettive e Day Hospital del Dipartimento di Medicina del Policlinico Tor Vergata di Roma. Quindi «un aumentato rischio cardiovascolare e un generale, più celere, processo di invecchiamento: oggi sono queste le principali direttrici dell’evoluzione dell’approccio al trattamento e alla gestione dell’HIV con una visione sempre più polispecialistica».

Novità terapeutiche più efficaci e meno tossiche

Tra i cambiamenti di rilievo è da segnalare l’arrivo in Italia della prima terapia a base di TAF, per il trattamento di adulti e adolescenti infetti da virus dell’immunodeficienza umana 1 (HIV-1), sviluppato da Gilead Science e disponibile da poco anche in Italia e contenente i principi attivi elvitegravir, cobicistat, emtricitanina e tenofovir alafenamide.

«È un importante rinnovamento nella classe degli inibitori nucleosidici/nucleotidici della trascrittasi inversa (NRTI), la classe “storica” per eccellenza in terapia antiretrovirale» sottolinea Andrea Antinori, Direttore U.O.C. Immunodeficienze Virali dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. «In una classe per anni dominata dal tenofovir disoproxil fumarato (TDF), l’arrivo del tenofovir alafenamide (TAF), nuovo pro-farmaco di tenofovir comporta una superiore concentrazione intracellulare (nei linfociti infettati dal virus ad esempio) e più bassa concentrazione extracellulare, con una conseguente significativa riduzione delle principali tossicità d’organo (rene, osso) legate alla esposizione a TDF. Eguale efficacia virologica, minore tossicità e quindi superiore efficacia clinica per TAF rispetto a TDF. Un significativo passo in avanti per terapie più tollerabili, più facili da assumere, più efficaci e durature in una logica di esposizione alla terapia long-life».

Il paziente al centro

È sempre più decisivo il ricorso a strumenti che consentano un approccio proattivo e preventivo per la salute globale della persona, come i PROs, definiti come “qualsiasi indicazione riportata direttamente dal paziente senza l’interpretazione del dato da parte del medico o di qualsiasi altra figura professionale”.

I PRO sono misure che permettono di descrivere e valutare lo stato di salute del paziente attraverso la sua stessa percezione. Infatti, la misurazione di aspetti della vita del paziente (come il benessere fisico e psicologico, l’aderenza e i sintomi) si è rivelata estremamente utile nella gestione clinica dell’infezione da HIV. Come spiega Antonella Cingolani, Dirigente Medico e Ricercatore Universitario presso l’Università Cattolica S. Cuore, Fondazione Policlinico A. Gemelli. «È dimostrato che sintomi riportati dai pazienti siano più strettamente correlati con misure di qualità della vita rispetto a quanto riportato dal medico. Inoltre, più elevati livelli di sintomatologia riportati dai pazienti, o dubbi riguardo a possibili effetti collaterali, sono associati a più bassi livelli di aderenza alla terapia e quindi ad un rischio aumentato di fallimento terapeutico e di progressione della malattia e a un rischio aumentato di interruzione del rapporto di fiducia con il proprio medico curante».

Combattere i pregiudizi

Sono oggi tanti i passi in avanti fatti e gli strumenti a disposizione ma c’è ancora un’area legata all’infezione da HIV, quella delle condizioni sociali, che non evolve altrettanto rapidamente e che rimane ancora saldamente ancorata al passato. «Le condizioni sociali delle persone con HIV sono per molti aspetti rimaste quelle di 20 anni fa. Il timore di essere rifiutati, discriminati e trattati diversamente costringe tante persone con HIV a vivere nell’ombra. E questo ha delle conseguenze inevitabili in termini di accesso al test e alle terapie – ha spiegato Giulio Maria Corbelli, Vice Presidente Plus Onlus – Abbiamo bisogno di interventi che affrontino la complessità del benessere delle persone con HIV, cercando di smantellare il muro di sospetto che le tiene separate da chi si considera sieronegativo».

FONTE LA STAMPA

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