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Reflusso gastroesofageo, la chirurgia non è sempre risolutiva

Reflusso gastroesofageo, la chirurgia non è sempre risolutiva

Reflusso gastroesofageo, la chirurgia non è sempre risolutiva
| martedì 24 Ottobre 2017

I sintomi sono piuttosto fastidiosi: i pazienti lamentano un bruciore alla bocca dello stomaco (dovuta all’azione dell’acido cloridrico) e il rigurgito del bolo alimentare (a volte fino alla bocca) nelle due ore successive al pasto. Detto ciò, la malattia da reflusso gastroesofageo è controllabile, pur dovendo accettarla «ad libitum»: con un’inevitabile ripercussione sulla qualità della vita. Motivo per cui, nonostante i progressi registrati negli ultimi dieci anni, prima di ricorrere all’opzione chirurgica occorrerebbe pensarci a fondo. In discussione non è la sicurezza dell’intervento, bensì l’efficacia: il rischio di recidiva è ancora piuttosto alto, così come di conseguenza quello di non poter interrompere la terapia farmacologica.

Troppo elevati i tassi di recidiva
Sono queste le conclusioni che emergono da una ricerca pubblicata sulle colonne del «Journal of the American Medical Association», con cui i ricercatori hanno voluto indagare i tassi di «re-intervento» registrati in un campione di 2655 pazienti sottoposti a una procedura di chirurgia laparoscopica per la risoluzione del problema. L’operazione, che andrebbe comunque sempre eseguita in centri con un elevato volume di esperienza, consiste nella ricostruzione della naturale barriera del cardias: la valvola che regola l’afflusso di cibo dall’esofago allo stomaco e che nelle persone colpite dalla malattia da reflusso non controlla a dovere la risalita dei succhi gastrici.

Ma quando la malattia da reflusso è causata da un’alterata motilità nell’esofago o nello stomaco, in realtà, la chirurgia non è quasi mai risolutiva. In più gli autori dello studio hanno rilevato, osservando i pazienti operati per un periodo medio della durata di 5,6 anni, che quasi il 18 per cento di loro aveva registrato nuovi episodi di reflusso nel periodo di osservazione. La quasi totalità di questi aveva così ripreso ad assumere i farmaci per la terapia medica, mentre una piccola quota (il 16,4 per cento) aveva scelto di ricorrere a un nuovo intervento in laparoscopia.
Tra questi, soprattutto donne, pazienti in età più avanzata o affetti comunque da altre malattie. Dati che hanno portato John Maret-Ouda, ricercatore del dipartimento di chirurgia gastrointestinale del Karolinska Institutet di Stoccolma e prima firma della pubblicazione, ad affermare che «i risultati in questione dimostrano lo scarso beneficio apportato dalla terapia chirurgica della malattia da reflusso gastroesofageo».

In Italia si opera meno di un paziente su dieci
Si stima che in Italia il reflusso gastroesofageo colpisca una quota compresa tra otto e dieci milioni di connazionali. Di questi, all’incirca il cinque per cento risulta candidato al trattamento chirurgico: dunque tra quattrocento e cinquecentomila persone. La valutazione spetta al gastroenterologo, che può raccomandare l’intervento a chi non risponde alla terapia farmacologica, a chi la segue sviluppando complicanze oppure a pazienti con meno di quarant’anni che non ne vogliono sapere di dover seguire cicli di terapie per tutta la vita.

«Ma l’esperienza mi dice che soltanto sul cinque-dieci per cento dei pazienti si interviene in questo modo – commenta Pier Alberto Testoni, direttore dell’unità operativa di gastroenterologia ed endoscopia digestiva del San Raffaele di Milano -. Molti di loro sono giovani costretti a una terapia permanente. Il ricorso alla chirurgia può andare bene anche per gli adulti, purché si sia certi della diagnosi documentata dall’esame attraverso ph-impedenziometria».

Diverso è invece l’orientamento negli Stati Uniti, dove i numeri della chirurgia laparoscopica associata al reflusso gastroesofageo sono più che triplicati negli ultimi quindici anni. Tutto ciò a scapito dell’incisione tradizionale, penalizzata secondo gli autori di uno studio apparso sulle colonne del «Journal of the American College of Surgeons» da «maggiori costi sanitari e più frequenti complicanze postoperatorie: infezioni, formazione di trombi e perforazioni dell’esofago», è il parere degli autori: tra cui il catanese Marco Patti, direttore del centro per la chirurgia delle malattie esofagee e della deglutizione dell’Università della North Carolina.

Come modificare lo stile di vita?
Il trattamento di elezione per la malattia da reflusso gastroesofageo rimane dunque quello farmacologico. In abbinamento agli inibitori della pompa protonica, efficaci e sicuri pure nei bambini e nelle donne in maternità, purché assunti per periodi limitati di tempo e comunque sempre sotto controllo medico, ci sono alcuni accorgimenti che possono aiutare ad attenuare gli episodi critici. Il primo di questi è il controllo del peso corporeo: ben venga dunque l’attività fisica.

Quanto alla dieta, «non bisogna consumare pasti abbondanti, soprattutto a tarda sera – aggiunge Fabio Monica, direttore della divisione di gastroenterologia ed endoscopia digestiva degli ospedali Riuniti di Trieste. Altri accorgimenti riguardano il fumo e l’alcol: evitandoli si attenuano i segni della malattia».

Non ci sono alimenti proibiti: ma prudenza occorre al cospetto di caffè, tè, cioccolato, bevande gassate, cibi piccanti, fritti o comunque ricchi di grassi. Mentre tra gli alimenti che sembrano dare il maggiore sollievo – come documentato da uno studio appena apparso sulle colonne della rivista «Jama Otolaryngology Head & Neck Surgery» – ci sono tutti i frutti, la verdura, i cereali e la frutta secca.

Prudenza, invece, rispetto ai consumi di latticini, formaggi, uova, carni (bianche e rosse) e pesce. Ai pazienti si raccomanda, inoltre, di non sdraiarsi mai subito dopo un pasto e di sollevare la testata del letto almeno di dieci centimetri, in modo da usare la forza di gravità per impedire la risalita del bolo alimentare.

Fonte La Stampa

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